Poiesis

L’urlo della sirena squarciò il silenzio lattiginoso dell’alba, riecheggiando nei cortili deserti, rimbalzando contro i vetri delle finestre, ostinatamente chiuse, dei palazzoni anonimi che si ergevano come bizzarri monconi diseguali ad ostruire l’orizzonte. Il cielo grigio restò immobile, sospeso sulle teste chine degli operai del turno di notte che marciavano come automi verso l’uscita. Una fila identica, in direzione opposta, veniva ingoiata, a passo cadenzato e lento, dalle fauci della POIESIS, sparendo dietro l’enorme portone di ferro che di lì a poco avrebbe imprigionato senza via di scampo i settecentotrentasei addetti al turno di giorno. Erano creature notturne e neglette, gli operai della POIESIS, avvolti in una divisa ormai scolorita, sul cui bavero un minuscolo triangolino colorato, contrassegnato da un numero progressivo, sanciva inequivocabilmente la mansione definitiva; millequattrocentosettantadue esseri umani costretti a non vedere mai, se non per qualche istante, la luce incerta del sole.

Il Ministero della Produzione Letteraria aveva imposto alla nazione uno sforzo sovrumano che richiedeva turni massacranti di 12 ore consecutive, senza possibilità di interruzione. Alla necessità di produrre 8732 tonnellate di letteratura al mese, di cui almeno 1746,4 di poesia, per una portata annua di 104784 tonnellate in totale, si aggiungeva l’aggravante della diminuzione inesorabile, ai limiti della carestia, di materiale utilizzabile per i nobili fini artistici. Prima fra tutte le concorrenti ad intuire possibilità di guadagno in un settore del mercato non ancora battuto, la POIESIS aveva quindi allargato il suo raggio d’azione affiancando alla ormai famosa macchina produttrice di versi e prose, chiamata PROSIMETRON, un poderoso impianto di raccolta di materiale completamente riciclabile e riutilizzabile con il minor danno possibile per l’ambiente letterario. Un centinaio di furgoni circolavano, giorno e notte, intenti a raccogliere qualsiasi oggetto avesse un’aria obsoleta, decadente, metaforica o metonimica; c’erano poi le idrovore, che di notte risucchiavano dalle fogne e dai canali di scolo, poesie e frasi vomitate da letterati in evidente condizione di alcolismo e depressione; infine migliaia di container colmi di ambizioni disilluse, frustrazioni, successi ed improvvise cadute di intellettuali che avevano vissuto la transizione dall’ibridismo ideologico del Governo Senza Capo né Coda degli anni duemila alla nuova era di consapevolezza che il Governo degli Illuminati a Led avrebbe mantenuto grazie alla proverbiale durata quasi eterna delle sue lampadine.

La discarica, o per meglio dire il centro di raccolta di materiale poetico CRMP, era collegato alla fabbrica da una galleria sotterranea a nastro trasportatore, che conduceva alla sala di smistamento di materiale poetico SSMP; solo dopo un’accurata cernita da parte delle Muse – era l’unico settore in cui erano impiegate esclusivamente donne – il materiale selezionato raggiungeva il biotrituratore letterario PROSIMETRON V2040, suddividendosi infine in due canali distinti, uno a sinistra per la Produzione Poetica e le sue sottocategorie (Versi Liberi, Obbligati, Poemi, Canzoni, Ballate, et cetera) e uno a destra per la Produzione Prosastica di Metratura Variabile. Grazie ad algoritmi di precisione e a sapienti giri di rotelle regolatrici di licenza poetica, intensità di pathos e libertà di metafora, operati dagli Addetti alle Rifiniture, gli oggetti di cui sopra si tramutavano in parole, frasi, capitoli, ottave, Opere Compiute. L’ultimo passaggio prima del libero mercato consisteva nell’ispezione censoria della Commissione Appetibilità. Ciascuna opera veniva analizzata al microscopio, privata di elementi superflui e contrari alla pubblica morale e confezionata in modo da attirare l’attenzione del compratore, spesso utilizzando artifici promozionali di bassa lega. L’Autore, figura mitologica osannata nei secoli precedenti, era ormai un misero feticcio, incapace di fornire il necessario quantitativo di letteratura richiesto dal Ministero della Produzione Letteraria e dunque sostituito da più efficienti macchinari adatti alla bisogna. Non erano scomparsi del tutto, tuttavia coltivavano ispirazioni velleitarie e individuali all’oscuro della collettività, in sotterranei silenziosi e impenetrabili, o in soffitte polverose e ricolme di oggetti inservibili, antico retaggio elitario, fantasma di una torre eburnea crollata miseramente negli studi televisivi, tra la pubblicità di un salame e l’ultima uscita del best seller dell’Editore BURP, unico sopravvissuto alla guerra per la conquista dell’egemonia assoluta.

Quella mattina si verificò uno strano incidente, nella SSMP. Un incidente che per poco non mise a rischio l’intera produzione giornaliera. L’addetta n.1432 di nome Luigina Loni raccontò a mensa, tra un morso al pane di segale e una cucchiaiata di zuppa di fave, di aver udito un rumore insolito provenire dal nastro trasportatore, come se un corpo estraneo ne ostacolasse l’irrefrenabile percorso. Mossa da un misto di prudenza e preoccupazione, si era addentrata nella galleria per controllare meglio. Era un’operazione alquanto pericolosa, non c’era molto margine di movimento e bastava poco per ritrovarsi biotriturati in un’autobiografia di Teo Manzerti, teorico dell’ebetudine al potere, o peggio ancora in qualche saggio sociologico di Veno Bruspa, con tanto di plastico in omaggio. Sembrava non ci fosse nulla di strano. Sul nastro in successione sfilavano calze a rete, una piuma d’oca, una collezione di pipe ancora odorose di tabacco, un fazzoletto di seta insanguinato, un fiore secco e sottile, una fotografia ingiallita, un trenino giocattolo, una pietra di fiume, un pennello da pittore ancora intriso di colori ad olio, un bicchiere sbreccato di vetro verde scuro, una fiala di laudano. Tutto normale, pensò tra sé, finirà tutto a sinistra, forse solo le calze a rete andranno ad adagiarsi su una vezzosa poltroncina in un romanzetto rosa da sala d’attesa di parrucchiere. Ma il rumore si sentiva ancora. Era quasi come un sibilo, come se un oggetto ignoto opponesse tutta la resistenza possibile prima di finire tra mille altri oggetti informi a dare forma ad una storia qualsiasi del peso minimo stabilito dall’azienda di 756 grammi. Luigina Loni proseguì la sua ispezione con maggiore accuratezza, seguendo la direzione del sibilo inconsueto, percepibile malgrado il rumore assordante degli ingranaggi in movimento. In una catasta di legna passata velocemente in rassegna e indirizzata al biotrituratore letterario c’era un pezzo diverso dagli altri, più grande, rugoso e contorto, che sembrava voler sfuggire alla cernita fatale: scivolava all’indietro, rovinando addosso agli altri ciocchi indifferenti, pronti ad essere impiegati nella costruzione di una nuova Pequod, modernizzata e destinata a naufragare a causa dello scontro con un iceberg nei mari del Nord, senza balene bianche ma con una melodrammatica strage di ricchi borghesi, ottimo ingrediente per una miniserie di successo della HBO. Il ciocco ribelle indietreggiava, producendo uno stridio così simile a un grido di aiuto e fu allora che Luigina lo riconobbe, come se quel pezzo di legno secolare, dalla forma irregolare e sgraziata, recasse un messaggio segreto destinato solo a lei. Le tornarono in mente gli anni dell’infanzia nelle campagne del suo paese, un lembo di terra bruciato dal sole e schiaffeggiato dal maestrale, un luogo in cui il vento salato penetrava fin sotto la pelle e la primavera sapeva di alghe e di schiuma di onde. Era un ciocco di ulivo secolare, sradicato e fatto miseramente a pezzi per essere trasformato in prodotto poetico idoneo alla pubblicazione BURP e alla vendita nei migliori supermercati della nazione. Appariva nudo, dimesso, pressoché irriconoscibile eppure quei solchi profondi, scavati nel legno, disegnavano un volto pietrificato nell’atto di urlare. Luigina Loni non ci pensò due volte e con cautela afferrò il pezzo di legno, sottraendolo al suo destino di morte. Onde evitare un deficit di produzione, benché irrisorio, sostituì il ciocco con l’equivalente materico di 4,75 chilogrammi – pescato tra scarti di magazzino, gambe di tavoli e volantini pubblicitari: certo qualche caduta di stile ci sarebbe stata nelle Opere In Fieri, ma se ne sarebbero accorti in pochi. Era l’epoca della Quantità, la Qualità non aveva più grande importanza. A fine turno, Luigina tornò a casa con il suo prezioso bottino, euforica e spaventata al tempo stesso. Sotto la finestra del palazzone in cui abitava, al quarto piano senza ascensore, da una crepa dell’asfalto irrorata dalle piogge autunnali, era emersa una zolla di terra nera e umida, unico sprazzo di vita nella monotonia cementizia della periferia della città. Fu lì che decise di piantare il ciocco, senza grandi speranze in verità, in parte a causa del suo pollice verso, in parte rassegnata ormai a una vita priva di bellezza. Per diversi anni nulla accadde, malgrado Luigina si affacciasse ogni giorno alla finestra per controllare. La crepa era lì, la terra nera anche. Spesso i cani si divertivano a scavare, i bambini dopo la scuola si lanciavano palle di fango – perché la neve non l’avevano mai vista in vita loro; niente. Finché non smise del tutto di affacciarsi e di sperare. Era vecchia, la vita di fabbrica le aveva piegato in due la schiena e la volontà, riducendo la sua esistenza a qualche ora davanti alla tv, sonno incerto e difficile, pasti frugali e monotoni, solitudine e tristezza.

La mattina del 20 giugno 2080 la sirena della fabbrica non squarciò il silenzio dell’alba. Nessuna fila di uomini in uscita, nessun passo cadenzato e lento in entrata. I telegiornali annunciarono che un gruppo di poeti dissidenti, organizzato in cellule segrete, aveva manomesso l’impianto della POIESIS, distruggendo le idrovore e squartando le ruote dei furgoni di raccolta materiali letterari. Dai tetti della fabbrica furono lanciati mucchi di volantini: poesie, aforismi, terzine dantesche, liriche antiche e moderne, stralci di romanzi, racconti, lettere d’amore. Sul retro di ciascuno uno strano simbolo: un ciocco di legno contorto e sgraziato con le radici piantate tra le nuvole e la chioma, zeppa di frutti, che pendeva come un lampadario. Quella mattina, Luigina non si svegliò. Il sonno che faticava a mantenere l’aveva completamente soggiogata; dormiva profondamente, con un sorriso divertito sulle labbra che sapevano di sale.

 

Strane coincidenze

Apro fb mentre attendo di bere il mio caffè, ho le finestre spalancante e l’aria frizzante che profuma di sale e di scogli mi sferza come un secchio d’acqua gelata, destandomi rapidamente dalla ciclica narcolessia del sabato mattina. Nella sezione notizie, scorrono innumerevoli informazioni che talvolta mi fanno interrogare sulla nozione di coincidenza, l’accidentale accostamento che crea improvvise dissonanze o consonanze inattese e spesso inattendibili. In sequenza mi appare l’articolo di Repubblica che annuncia un “raduno statico” al Circo Massimo dei difensori della famiglia tradizionale, con una lunga descrizione dei partecipanti, di coloro che aderiscono con convinzione, di quelli che nicchiano, di quelli che affermano di essere là non per la famiglia ma per i bambini, di quelli che la Cei è con noi, di quelli di Casa Pound che aderisce ma nessuno la vuole ufficialmente, di alcuni del PD che hanno tradito le aspettative, di Renzi che nel cerchiobottismo del 2007 aveva dato il suo appoggio morale alla manifestazione, della Lega che si compiace di aver trovato nel Pirellone un metodo di comunicazione pubblicitaria efficace e che annuncia di utilizzarlo per diramare valori universali cari a Dio, alla patria lombarda e alle famiglie eterosessuali con figli a carico. E, subito dopo, la notizia riesumata dall’ineffabile Huffington Post di Ashley Kaidel, l’allattatrice di neonati al ristorante che fa tremare la morale pubblica. E poiché il sabato è un giorno di pulizie di casa, di lavatrici, di ricette svuotafrigo e di un sottinteso masochismo intrinseco, mi avventuro nella lettura dei commenti dei lettori,
Il che ha richiesto una tazza di caffè supplementare di consolazione, un biscotto integrale antidepressivo e una dose generosa di Gaviscon per attenuare le ondate di acidità che mi si agitano nello stomaco. Mi soffermerei inizialmente sul caso dell’allattatrice di figl, definita in sequenza esibizionista, sconcia, provocatrice, maleducata, inconcepibilmente sfacciata, un po’ troia, ma proprio mignotta, ma una madre così che educazione può dare ai figli? Ma ci rendiamo conto, in pubblico? Vergognaaaa. Pare che le donne che allattano i propri figli dove capita si esibiscano in preliminari lap dance, spogliandosi e sculettando al ritmo di You can leave your hat on, accentrando sulla mezza tetta visibile l’occhio spermatico di intristiti mariti al tavolo con mugliera nei ristoranti di tutto il mondo, scatenando le ire in primis di altre donne (il che mi pare di una tristezza infinita) accusate da diversi utenti di invidiare la condizione di pienezza del seno della fase di allattamento. Una sorta di invidia delle tette grosse, a detta di alcuni uomini, che lungi dall’apparire difensori della libertà di allattare un bambino, tradiscono la solita pruderie unita alla considerazione della donna in quanto mammella più o meno ben tornita. Ora, che si trovi indecente o provocante l’allattamento di un neonato ha del patologico a mio modesto avviso. Fa pensare al criterio con cui si coprono le statue, si imbraghettano i nudi di Michelangelo, si cerca di occultare qualcosa di assolutamente naturale e “neutro”, ammandandolo ad ogni costo di scabroso, erotico, sessuale. Chissà se chi ritiene pericoloso per la morale pubblica l’allattamento di un neonato abbia voglia magari di mettere un reggipetto alle innumerevoli madonne con bambino che mostrano il seno nudo nelle chiese, oltre che un lenzuolo in testa alle snaturate madri che invece di essere rinchiuse in casa dalla nascita della creatura fino al compimento della sua maggiore età hanno l’ardire di continuare ad avere una vita sociale, lavorativa, relazionale, familiare come persone normali. Come fanno gli uomini, che non mi pare si ritirino dal mondo civile alla nascita dei loro preziosissimi eredi. E mi chiedo quanta di quella gente sfilerà oggi, pardon, stazionerà oggi (la definizione di raduno statico è una perla giornalistica da non dimenticare, un colpo di genio spero non involontario) a difesa della famiglia tradizionale e dei bambini che hanno diritto ad avere una mamma femmina e un papà maschio, ritenga scabroso e aberrante che una donna possa addirittura nutrire il proprio figlio sotto gli occhi di tutti, come se in quel gesto non ci fosse la naturalezza di una madre che accudisce ma una donna che invita il maschio all’erezione sfidando le altre donne senza prole a un duello ancestrale tra chi ha la possibilità di procreare e chi è condannata a scomparire senza figli.
Se vi sta tanto a cuore la salute dei bambini, la loro stabilità emotiva, il benessere psicologico, come potete pensare che l’allattamento, ovunque esso sia messo in atto, possa essere anch’esso regolamentato da bacchettoni e censori capaci soltanto di ricoprire di fango qualsiasi azione non conforme al loro retrogrado e ridicolo modo di vedere? Il dilagare di tette e culi in televisione, la libera pornografia accessibile su internet anche ai minori, l’esibizione del corpo femminile nudo e crudo in tutte le salse per pubblicizzare prodotti invece vi sta bene? Nella segretezza delle vostre dimore accende per caso i vostri sogni erotici e inconfessabili? Dovremmo forse essere tutti maniaci sessuali come voi e leggere messaggi provocatori anche nella suzione del latte materno, messaggi tali da eccitare fantasie e organi genitali? signori miei, siamo messi male. fate l’amore e non fate la guerra a chi vive la sua vita in naturalezza e spontaneità, senza offendere nessuno e senza coltivare nel proprio animo perniciose frustrazioni e desideri inespressi.

Manuale di volo pindarico

C’è un sole stanco e svogliato, stamattina, immerso in una caligine polverulenta che irrita le narici. Un’aria greve e immobile, densa di velleità inespresse, sospesa in attesa di qualcosa di indistinto, non meglio specificato, sfuggente. Un desiderio timido, una necessità silenziosa che stentano a prendere forma nella mia mente, malgrado i tentativi di disegnarne i contorni con le parole. Seguo con gli occhi le volute di fumo della mia tazza di caffè, pensando al gesto ripetitivo e tranquillizzante, al rito di iniziazione di ogni mia giornata, all’insieme di colori e odori che mi dicono casa ovunque io sia. Sono affamata di storie, di vite, di emozioni. Le cerco negli sguardi degli sconosciuti incrociati sull’autobus, nelle voci che mi risuonano alle spalle mentre mi aggiro per la città, nelle scintille improvvise di un incontro fatale, nelle tracce impalpabili di chi mi ha sfiorata ed è sparito, lasciando dietro di sé un alone di vapore, un alito di vento salato. Vorrei scrivere, estrarre dalla mia testa questa miniera di piccoli tesori insignificanti, pietruzze colorate, schegge di vetro, piume, sassi, granelli di sabbia, fiori appassiti tra le pagine di un libro amato e dimenticato. Vorrei scrivere e sorridere di queste minuzie delicate che mi insegnano ad osservare il mondo. Vorrei essere capace di squarciare questo velo di torpore che mi avvolge come una coperta di lana spessa e urticante e tornare a volare come un tempo, quando saltellavo divertita da una parte all’altra, rincorrendo la mia ombra e cercando di sfuggire al riflesso del mio volto allo specchio. Forse ho dimenticato i fondamentali. Davanti a me marchingegni strani, astrusi, gelosamente oscuri. Un elenco anonimo di cose da fare per ricordarmi di essere viva, una pila di desideri piegati alla meno peggio su una sedia dell’ingresso in attesa di essere riposti in un cassetto o nell’angolo recondito di un armadio ad ante scorrevoli. Briciole sul tavolo per rallegrare i pettirossi. Tazze vuote come il cuore, in cui resta solo l’ombra di ciò che è stato, un alone di caffè, una macchia scura, un odore sempre più fievole e lontano. E questo sorriso spezzato e ostinatamente esibito è ormai il mio, poco importa che sia nato da una crepa sottile e profonda e abbia assunto le mostruose sembianze del riso isterico, amaro, pungente. Ora ha la morbidezza delle mie guance tonde, il disegno delle mie labbra vermiglie, lo sguardo distaccato e costantemente altrove di chi non ha ancora ben chiaro quale sia il suo posto nel mondo, ammesso che vi sia un angolino, una tana, un rifugio. Mi accontento di camminare, da una parte all’altra, alla ricerca di qualche oggetto desueto, abbandonato con indifferenza e cinismo al suo destino di polvere e oblio. Un volo rasoterra, un accennato saltello, un goffo rimbalzo che ricalca il passo dell’albatro irriso dai marinai e si tramuta, per improvvisa reminiscenza letteraria, in gabbiano di Chivasso, nobile dominatore delle discariche abusive. Sarebbe stato gentile da parte dei teorizzatori del volo pindarico, fornire indicazioni precise sulle tecniche di atterraggio di emergenza. Non mi troverei così nell’imbarazzo di chiudere una pagina senza capo né coda, con le alucce di carta spiegazzate a mo’ di segnalibro, innumerevoli come i frammenti sfilacciati di un discorso senza senso.

Lo spazio bianco

Che suono ha il silenzio? Me lo domando sfogliando lentamente questo libro consunto, le cui pagine si tengono insieme grazie a un filo di cotone sottile che resiste ostinato alle angherie del tempo, mentre la carta, ingiallita e sfatta, reca tracce del passaggio delle nostre mani. Prima edizione, 1947. Ricordo di averlo letto a dodici anni, in una estate afosa e interminabile trascorsa al mare, alternando nuotate e compiti per le vacanze, solfeggi parlati e cantati e risoluzioni di accordi. Ricordo l’odore di quelle pagine, sopravvissute a numerosi traslochi e all’aria salmastra che le aveva rese umide e grevi, come la terra di un cimitero. Seguivo le macchie di muffa disegnando nella mente figure senza senso. E leggevo cose incomprensibili. Scritte con parole nude, spoglie, prive di orpelli. Soppesate al milligrammo, con una bilancia di precisione, stilistica e morale, che impedisse l’esubero, il superfluo, il sentimentale.
Parole che giungevano al limite e improvvisamente tacevano, arretrando di fronte alle fauci spalancate del silenzio. Pagine costellate di spazi vuoti, cicatrici del testo che non potevano rimarginarsi e continuavano ad esporre la loro nudità ai miei occhi impreparati, alla mia mente incapace di comprendere ciò che non si può comprendere.
Lunghe pause che racchiudevano l’indicibile in un vuoto sospeso e atemporale, un punto coronato che interrompeva la narrazione con una dissonanza stridente e impossibile da risolvere. In quella voragine di bianco il senso più profondo dell’opera, il vuoto che nessuna parola può colmare, l’abisso di non senso in cui precipitare per tentare di sopravvivere a una realtà feroce, sconcertante, incomprensibile.
Nelle edizioni successive, probabilmente per esigenze tecniche, gli spazi bianchi si sono ridotti fin quasi a scomparire. La parola ha ritrovato il suo flusso tranquillizzante, il silenzio è stato relegato a chiudere, come una doppia stanghetta, ogni singolo capitolo. Un tentativo di normalizzazione, di ricercato ordine, di ripristinata consuetudine. Il tempo passa e leviga ogni spigolo, attenua i contrasti, ricopre le contraddizioni e gli errori con una coltre spessa di polvere. Che tuttavia non cancella dalla mia mente quella lingua paralizzata e impietrita, fatta di frammenti aguzzi di vetro trasparente, di sangue vivo e pulsante.
Schegge che si conficcano nella carne e restano sotto pelle, ferite sotterranee di una coscienza collettiva che tenta invano di ignorarle, relegandole in una parentesi della storia e illudendosi che mai si ripeterà.

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C’era un silenzio irreale a Dachau. Era il 4 luglio del 2014, lo ricordo bene. Il tuo anniversario. Camminavo nell’enorme spiazzo assolato, nel quale erano asserragliati plotoni di studenti provenienti da ogni angolo d’Europa. E scalpitavano, annoiati e accaldati, desiderosi che la visita finisse prima possibile. Li osservavo camminare in fila senza guardarsi attorno, intenti a giocare con i telefonini e a fare battute tra loro. Anche davanti ai forni del crematorio nuovo non hanno fatto una piega, quasi fosse normale, assodato, banale che in quelle bocche spalancate avessero trovato la morte a migliaia.
Un silenzio della ragione soffocato dal continuo brusio, dal chiacchiericcio osceno, dalle urla improvvise e trattenute a stento. Un silenzio che aveva il suono del vento tra le foglie e l’odore aspro e pungente della resina, il colore screziato dei sassi e il sapore di sangue rappreso. Come se i boschi avessero voluto ingoiare quello squarcio di terra e di morte, occultandolo nell’erba spessa, tra i fitti rami verdissimi. E le risate leggere, feroci come pugnalate. Dissonanti, abnormi, mostruose. Pietre ovunque, piccole, tonde, colorate. E canti di uccelli tutto attorno. La natura che sopravvive all’orrore. Alberi giganteschi, le cui radici si fanno largo tra le ossa.

Crociate moderne e oscurantismo antico

Non c’è niente da fare. La maledizione del lunedì si abbatte su di me ogni settimana, disseminando la mia esistenza di indizi talvolta microscopici uniti a prove tangibili della sua potenza. Stamattina la sveglia, anziché suonare come di consueto alle 6, ha deciso di trillare imperiosamente alle 4.22, interrompendo il mio sonno inquieto a mala pena dopo due misere ore; il risveglio improvviso mi ha letteralmente catapultata giù dal letto, consentendomi di testare la solidità del parquet con l’ampia superficie della mia fronte, attualmente non priva di sinuosi rilievi collinari e bitorzoli da impatto. Sono scesa in cucina per annegare la mia disperazione in una intera caffettiera napoletana, piacere lento e meditativo che mi concedo per invertire la tendenza disastrosa di giornate come questa. Ed è in quel momento che ho commesso l’errore. Sarà stato il fastidio del pigiama che pizzicava come una cotta di maglia, la testa pesante come fosse incorniciata da un grande elmo, il cucchiaio brandito a mo’ di daga ma ho avuto sentore di medioevo sin dal primo sorso di caffè. E accendendo il pc per la mia quotidiana rassegnata rassegna stampa mi sono imbattuta in un resoconto delle recenti manifestazioni di piazza che hanno visto sfilare da una parte gli strenui difensori della tradizionale sacra famiglia eterosessuale (possibilmente santificata in chiesa perché il matrimonio civile è una presa per i fondelli oltre che un insulto a Dio), dall’altra orde colorate di pervertiti di ogni sorta inneggianti a improponibili idee di uguaglianza e anacronistica parità di diritti tra esseri umani. Crociate moderne, secondo la definizione ricorrente, che attinge a un lessico e a un immaginario oscurantista da apocalisse imminente unita ad estinzione della specie a causa della dilagante peste omosessuale. Il masochismo mattutino non si è limitato a scorrere gli articoli vomitati, pardon, scritti da autorevoli penne de Il Giornale o Libero, ma mi ha spinta ad addentrarmi nei meandri infernali dei commenti dei lettori, un girone dantesco ai confini della realtà in cui si mescolavano senza ritegno turpiloquio, aggressività, odio, grettezza, violenza e meschinità indirizzati contro questi “esseri schifosi” che vogliono imporre la loro immonda condotta di vita a persone normali, sane e rispettose della morale, della verità e della giustizia. Omosessuali untori, capaci con la sola imposizione di una pacca sulla spalla, di contagiare e omosessualizzare l’universo mondo; insidiose lesbiche che con la scusa della sorellanza e di un veterofemminismo romantico e sensuale impongono tagli di capelli a zero e piercing sulla lingua, oltre all’esibizione orgogliosa dell’ascella pelosa. E non parliamo dei poveri bambini, costretti a crescere in famiglie dissestate invece che in comodi e allegri orfanotrofi dove uteri etero e falli fallaci li hanno abbandonati perché abortire è uno schiaffo morale alla vita, liberarsi di un figlio vivo invece è una forma di rispetto e contrizione per aver compiuto atti impuri prima del matrimonio. Particolarmente creativi gli inviti allo stupro del Presidente della Camera che incarna una summa di mali genetici, politici e morali (è una donna, orrore!, ha un ruolo istituzionale di notevole rilevanza, scandaloso!è di sinistra e possiede un patrimonio lessicale leggermente superiore all’accozzaglia di grugniti adoperati dai leoni da tastiera per insultarla, usa parole arzigogolate per confonderci, gomblotto!). Ai deliranti e qualunquisti commenti dei lettori – una branca dell’antropologia culturale potrebbe interessarsi a questi fenomeni di scrittura gastroduodenale e alla libertà di espressione delle gonadi, ultimo luogo di avvistamento dei neuroni di alcuni utenti – si affiancano i contributi alla riflessione di intellettuali del calibro di un Adinolfi o della ineffabile Costanza Miriano, che dettano le regole di una sana vita cattolica indicando la via della sottomissione (della donna, ovviamente) e della negazione di diritti acquisiti (non tutti purtroppo) con anni di lotte e fatica (divorzio, aborto, fecondazione assistita, eutanasia e testamento biologico, donazione di organi e tessuti, uso del preservativo e prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale). Di fronte alla solidità teorica di certe aberrazioni, il Pirellone di Maroni sembra quasi uno scherzo da cortile (e come tale è stato considerato, viste le innumerevoli risposte goliardiche a tono). Lungi da me l’intento di sottolineare l’incongruenza tra professione di fede e retorica dell’odio, tra carità e razzismo, rispetto dell’altro e denigrazione del diverso: del resto il principio di non contraddizione è aristotelico, non certo evangelico. E la pericolosità del pensiero razionale è di luminosa evidenza in questi tempi oscuri. Lungi ancor più da me fare bassa filologia nel tentativo di spiegare che diritto non è obbligo ma possibilità e che concedere a coppie di fatto, etero o omosessuali che siano, di sposarsi e tutelare i propri figli non significhi obbligare al matrimonio o alla procreazione, né tantomeno infliggere alla progenie omosessualità e perversione come fossero tare ereditarie. Sento puzza di bruciato. Un metaforico rogo su cui un manipolo di persone intendono incenerire la libertà di scelta individuale, imponendo verità assolute e non richieste, visioni del mondo univoche e ristrette che tradiscono l’idea, narcisistica e vagamente patologica, di essere gli unici detentori di valori morali improntati alla rettitudine. Le piazze italiane, fortunatamente, dimostrano che siamo migliori di come ci dipingono: ho visto famiglie, vecchi, bambini, colori, gioia e determinazione. Ho visto esseri umani lottare insieme senza distinzioni perché i diritti siano di tutti: l’eguaglianza non è eliminazione del diverso, ma sua tutela, cura e protezione. Senza bisogno di attingere al programma di fratellanza internazionale di Bakunin, sarebbe opportuno cominciare a riflettere sulla necessità di uno stato laico e sulla opportunità di separare istanze private e individuali (di fede, ateismo, agnosticismo, ortodossia, et cetera) da esigenze pubbliche, comuni e collettive, rivendicando per l’uomo tutto ciò che le religioni hanno trasferito in cielo e attribuito ai loro dei e ammettendo che la morale è indipendente da qualsiasi teologia e da qualsiasi metafisica divina e non ha altre radici al di fuori della coscienza collettiva degli uomini.

appunti per una proposta di apocalisse catartica, o la satira, questa sconosciuta

Dovevo intuirlo dal grigiore di quella mattina di inizio gennaio densa di presagi funesti: il caffè improvvisamente finito, la doccia interrotta nella fase critica dello shampoo che cola urticante negli occhi, lo sciopero non concordato della caldaia, l’esplodere del morbo influenzale per chiudere in mestizia la tregenda natalizia. Erano chiari segnali che la saggezza popolare non sbaglia mai e che, malgrado non abbia mai trovato zampe di gatto nel lardo e che sul “moglie e buoi dei paesi tuoi” potrei scrivere un breve trattato di antropologia coniugale, il Leitmotiv “anno bisesto, anno funesto” ha caratterizzato le mie riflessioni mattutine post terza tazzulella di caffè.
Sull’ecatombe artistica e culturale che si è verificata in questi giorni tacerò per lutto (non mi sono ripresa ancora dalla morte di Lou Reed, figuriamoci se riesco a metabolizzare la scomparsa di David Bowie; e Alan Rickman, purtroppo per lui ricordato quasi esclusivamente come il Severus Piton di Harry Potter; e Franco Citti che “ma non era già morto? No, quello era Sergio”, ieri Michel Tournier alla veneranda età di duecento anni, ma la scrittura, quella, è immortale; oggi Glenn Frey, lo storico fondatore degli Eagles che torna a volare con le aquile). Insomma, un superlavoro per gli amanti del necrologio quotidiano, per i commentatori compulsivi da social network, per tutti coloro che, come me, a prima mattina si immergono nel vortice della comunicazione come in un bagno rilassante che si conclude con l’accidentale caduta di un asciugacapelli acceso nella vasca.
Folgorante. Come una serie di post letti, con relativi commenti, sulla vignetta (in climax ascendente: inopportuna, sgradevole, vomitevole, raccapricciante, schifosa, demenziale, aberrante, inconcepibile fino a giungere alle vette di ineffabile turpiloquio che lascio alla vostra immaginazione) di Charlie Hebdo, rivista satirica la cui esistenza è nota alla maggior parte del mondo del web dopo che un attentato terroristico di matrice antisatirica ha sterminato mezza redazione, direttore compreso, a gennaio scorso.

Andiamo per gradi. Ricordiamo la vicenda del bambino trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, la cui fotografia è divenuta il simbolo dell’esodo di migliaia di profughi e testimonianza delle centinaia di morti senza nome sprofondati sott’acqua. La fotografia lo ritrae adagiato sulla riva, come se dormisse il sonno esausto dei bambini dopo un pomeriggio di giochi sfrenati. Questa immagine ha fatto il giro del mondo, dalle pagine dei giornali al web, dalle televisioni di tutto il mondo alle bacheche dei social network. In questa ondata di dolore collettivo, sgomento e indignazione nessuno ha pensato che fosse inopportuno o sgradevole esporre il cadavere, perché tale era, di un bambino agli occhi dei familiari sopravvissuti, di un padre che ha visto morire moglie e un altro figlio senza poter far nulla. Appena è apparsa la vignetta di Charlie, com’era prevedibile, si è invece scatenato l’inferno. Persone che avevano quasi giustificato la strage, ritenendola una conseguenza naturale degli attacchi alle religioni (tutte, non solo quella islamica, per dovere di cronaca) hanno gridato allo scandalo perché la vignetta offende la memoria di un bambino morto; persone che avevano invece difeso a spada tratta il diritto di satira a gennaio scorso, improvvisamente, arretrano in favore di un giudizioso pudore, invocando una censura non pubblica, ma della coscienza individuale dell’autore che non deve permettersi di oltrepassare limiti di buon gusto imposti da altri. (Il discorso non fa una piega, come si può notare). Io credo che la satira non necessiti di approvazione e che non debba subire alcuna censura poiché è insito nella sua essenza l’essere fuori dalle righe, dagli schemi, dalla logica del buono e del giusto. E che sia questa la sua forza dirompente, la sua potenza rivelatrice di una realtà che facciamo finta di ignorare.
Cosa c’è di realmente disturbante in questa vignetta? Sul serio la si intepreta alla lettera avvalorando l’equazione, tutta occidentale, “profugo siriano – musulmano – pervertita scimmia assetata di sesso”? O non è forse la traduzione di un’equazione ben più pericolosa, quella che si insinua pervicacemente nella nostra coscienza, che ci fa intenerire per il corpicino abbandonato sulla spiaggia e al tempo stesso ignorare e disprezzare l’immigrato maleodorante che invade le nostre città con il suo carico di malattie, pericolose derive integraliste, abitudini che infrangono la nostra pacchia di unici detentori di civiltà? Sia chiaro, la vignetta non fa ridere. Non deve far ridere. Non siamo a Zelig o al bar dello sport (dove peraltro il livello di battute sessiste, omofobe e razziste si spreca senza destare incubi nella coscienza collettiva, tanto considerare effeminato un omosessuale, oggetto sessuale una donna e bersaglio di scherno ebrei, cinesi, neri è un comportamento approvato dalla Congregazione Universale dei Qualunquisti, l’unico partito che vincerebbe le elezioni con percentuali bulgare e senza spendere un centesimo di campagna elettorale). La vignetta è tanto più rivoltante quanto più rispecchia procedimenti mentali e interpretativi prontamente verificatisi. E nel suo intento di metterci a nudo ha centrato il bersaglio. La trovo certamente meno ripugnante dei fotomontaggi in cui quella creatura appariva con le ali, o in una culla a dormire placidamente. Perché dobbiamo ogni tanto tener presente che quelle ali, quella culla gliele abbiamo strappate via anche noi. E Charlie Hebdo ha usato il suo solito linguaggio, volutamente scorretto, fuori dalle righe, caustico per rendere omaggio senza ipocrisie alle centinaia di Aylan di ogni età che guardiamo con orrore se salgono sul nostro stesso autobus o che muoiono in mare, in un silenzio che tutto ingoia indistintamente. Sarò avvezza a questo tipo di “codice” (mi riferisco al linguaggio satirico francese) perché cresciuta leggendo Charlie dai primi numeri e so perfettamente che siamo su due piani abissalmente diversi, non solo di libertà di satira ma anche di forma e contenuto. Il più perfido Altan, irriverente e sarcastico, quello dell’ombrello nel culo, per intenderci (peraltro ispirato da Roland Topor), ci sembra un’educanda a confronto di certe esternazioni del fu Wolinski (uscito per anni e anni su Linus senza destar scandalo, forse perché Linus come Charlie lo leggono in pochi pochissimi e non stiamo parlando di un messaggio alle nazioni a reti mondiali unificate). Lo sberleffo alle religioni nel nostro paese è pressoché inconcepibile, basti pensare alla ghigliottina che si invoca per Vauro ogni volta che vi fa velatamente cenno. Ciascuno ha diritto, sia chiaro, di esercitare la propria indignazione. Sarebbe però utile convogliarla altrove, al cuore dei problemi e non alla vignetta, alla rivista o al vignettista che con un tratto di matita, sgraziato quanto si vuole, ci mostra allo specchio chi siamo e che cosa siamo stati capaci di fare.

pensieri sparsi

La fine, l’inizio. Parole prive di senso galleggiano nella mia mente, mentre la mia vita scorre, fluida e indifferente. Si confondono, si mescolano, si annullano nell’equivalenza che attenua i contrasti. E non sai da dove sei partito. E non sai dove sei arrivato. Solo cicatrici, orme leggere a segnare un sentiero vago, appena accennato, che si dissolve un passo dopo l’altro. La memoria vacilla, le immagini sono offuscate, improvvisi guizzi di luce mi accecano. E poi silenzio. Dove sei, ora?

Le ultime righe che hai scritto prima della tua lunga notte. Sull’agenda con i gatti che ti avevo regalato a Natale. Non devo più aprire i miei cassetti. Voragini spaventose si aprono come ferite antiche e sempre nuove. Rimettiamoci la maschera e andiamo avanti. Nessuno noterà questa ennesima crepa, alcuni potrebbero persino scambiarla per un sorriso. Tutto continua, tutto ricomincia, tutto mi sfugge. E resto sospesa così, le dita che stringono il vuoto.

20 Giduglia 142 E.P.

Osservo la nivea nudità di questo foglio bianco nel silenzio di una mattina solitaria e lattiginosa. Le parole tracciano piccoli solchi, un atlante immaginario di luoghi inesistenti. Navigo a vista tra scogli consonantici, mentre vocali sonore e ricoperte di squame dorate lanciano richiami seducenti e i segni di interpunzione nuotano veloci, interrompendo per qualche istante la corrente dei pensieri, limitandone la furia, imponendole una direzione, una meta plausibile, una spiaggia su cui sostare e contare le conchiglie e i sassolini. Non possiedo una barca a remi, neppure una zattera messa insieme con quattro assi in croce. La risacca lascia scivolare a riva scie di parole e schiuma bianchiccia; parole smozzicate, incomplete, mangiucchiate dai pesci, ricoperte di alghe verdognole; parole lucide come sassi rotondi simili al cranio levigato degli esattori delle imposte. Parole aguzze, come schegge di legno di un veliero inabissatosi in un passato indecifrabile che non tornerà. Sei partito due anni fa, senza lasciare neppure un biglietto di congedo, un indizio che rivelasse le tue intenzioni. Ti sei occultato attorno alle cinque, mentre ero intenta a contare respiri, a stringere la tua mano fredda e a far finta di niente. Il tuo strano corpo di insetto era lì, davanti a me, adagiato su un bizzarro naviglio, arenatosi sul pavimento della tua stanza da letto. Una farfalla si è avventurata nella stanza afosa, svolazzandoti attorno, prima di sparire in un battito d’ali. Ricordo la danza di polvere luminosa che ne ha accompagnato il volo. Quel pomeriggio, ho toccato la riva dell’isola del non senso. Un luogo ridotto a discarica, dove finiscono i ricordi perduti, i frammenti di memoria, le macerie trascinate dalla corrente di un tempo presente che scorre senza sosta, indifferente. Valigie piene di oggetti sono abbandonate qua e là, ricoperte di edera, come i muri sbreccati dei ruderi di campagna; apparizioni magiche che si stagliano fiere in un orizzonte di grano bruciato dal sole. Qui il tempo si è fermato, gli orologi sono senza lancette, le clessidre sono vuote, mute, immobili. I pochi abitanti non hanno un volto, corpi acefali che camminano in silenzio, senza profferire verbo. Uno di essi, seduto su un tronco sospeso a mezz’aria, suona il flauto. E la musica mi racconta la sua storia. Ho indugiato per anni su quell’isola, percorrendo ogni sentiero cieco, ogni strada chiusa, ogni direzione inconcludente. Finché le parole non mi hanno precipitata nuovamente altrove, trascinandomi con violenza verso nuovi lidi. Parole autoritarie, imperative, che si ergevano come piccoli generali trisillabici, impettiti nelle loro divise verde palude, ricoperte di stellette dorate. Mi è tornata in mente la tua voce, grigioverde come gli occhi che mi guardavano da sotto il sopracciglio alzato. Sono partita con una scatola di legno come unico bagaglio, seguendo un richiamo melodioso e suadente. L’isola sonante mi si è mostrata in tutto il suo splendore una mattina di qualche mese fa; era bianca e nera come i tasti di un pianoforte a coda, percorsa da suoni armonici prodotti da un curioso organo ad acqua, le cui canne circondavano, quasi fossero una catena montuosa, l’intero perimetro di questo luogo incantato. Speravo di poterti incontrare qui, di proseguire il viaggio con te. Ma sono arrivata troppo presto, o troppo tardi. La puntualità non è mai stata il mio forte. Non so dove tu sia, ora. Ho aperto la scatola e trovato i tuoi regali. Una cipolla da taschino priva di lancette e una piuma. Sei sempre stato enigmatico. Ma ho capito che la navigazione non ha bisogno di grandi mezzi. Il viaggio impone bagaglio leggero, disposizione all’avventura e un certo incosciente sprezzo del pericolo. Tu sei partito così, senza preamboli, senza timore. Hai navigato da solo, guidato dal vento, bruciato dal fuoco, accompagnato da una lontana eco di lacrime salate, verso terre inesplorate che solo tu puoi disegnare. Mi hai lasciato la leggerezza della piuma, il suo incedere sinuoso, la sua carezzevole delicatezza, il solletico che risveglia in un’esplosione di risate allegre. Ti raggiungerò quando il tuo orologio segnerà l’ora. Non perderò la nave, non dimenticherò i documenti. Aspettami, ovunque tu sia.

Racconto pubblicato nel Quaderno n.8 del Collage de ‘Pataphysique, Edizioni Cd’P, Sovere 2015.

Umanità, questa sconosciuta

immaginepace

Sto guardando questo spazio bianco da diversi minuti, senza riuscire a tradurre in parole il mio sgomento. Ogni volta che tento di scrivere, le singole lettere mi sembrano strani orpelli privi di significato, il cui senso è naufragato insieme alla solidarietà umana, alla condivisione del dolore, al silenzioso rispetto per la morte di centinaia di disperati senza volto, senza nome. E senza importanza.
Ho commesso l’errore fatale di leggere i commenti alla notizia, scoprendo un volto ancor più detestabile dell’italiano medio, gretto, meschino, disumano. Italiano medio che immagino ami mostrarsi caritatevole sui banchi di chiesa, rispettoso delle leggi, onesto cittadino, difensore del bene pubblico. Non certo il piccolo evasore, furbetto, avido e attaccato a quattro centesimi, che parcheggia in tripla fila e intona la sua filippica delirante contro la corruzione politica che gli infligge una doverosa multa; assolutamente non uno che “la legge va rispettata” ma non da lui, perché fa parte di una razza superiore, o uno che si riempie la bocca di illazioni qualunquiste e crede di fare la rivoluzione civile col culo incollato alla poltrona, servito e riverito e con la pancia piena. Ho letto frasi che mai avrei pensato di leggere, malgrado non nutra tutta questa stima nel genere umano. C’era chi festeggiava, chi si felicitava del risparmio economico, chi ipotizzava fantascientifici blocchi navali o scudi interstellari per lasciarli crepare a casa loro, che poi il mare si inquina e a fare il bagno nel villaggio turistico a cinque stelle si potrebbe essere turbati dall’orrore. Chi accusava di ipocrisia e buonismo gli utenti che mostravano un briciolo di pietà, di tristezza, di angoscia, di solidarietà. Chi “ospitateli nelle vostre case questi pidocchiosi delinquenti”, “ci tolgono il pane di bocca, il lavoro, la casa”. Chi invece “vorrei sottolineare che questi qui sono accolti, vestiti, nutriti, gli danno pure le sigarette e il telefonino e 40 euro al giorno, un tetto sopra la testa, che altro vogliono? a me 40 euro non me li danno”. Non intendo confutare tali illuminanti perle di saggezza, e neppure far notare che i centri di accoglienza o di identificazione ed espulsione non siano luoghi ameni di villeggiatura. Ma vorrei riflettere sulle parole, sul loro peso specifico, sul senso che dovrebbero avere anche in bocca o sotto i polpastrelli di persone evidentemente incapaci di controllarsi. L’avvento dei social network ha generato l’illusione che democrazia significhi parole in libertà, senza conseguenze, senza freni inibitori. è questo uno degli aspetti più deleteri del fascismo strisciante della comunicazione. L’aggressività verbale, l’accapigliarsi su ogni minima cosa, il ridurre la dialettica a tifoseria buzzurra, il cogliere ogni occasione per vomitare addosso ad altri veleni, frustrazioni, odio sono sintomi pericolosi di qualcosa che evidentemente covava nella cenere, sotto traccia e che ora esplode senza pudore, quasi con autocompiacimento. E allora fioriscono i censori da poltrona, i moralisti dell’ultimo minuto, i razzisti senza se e senza ma, i criptorazzisti che non sono mica razzisti ma, gli elegantoni che apostrofano le donne con epiteti da trivio, quelli che augurano la morte a chicchessia, salvo poi smentite, fraintendimenti, mistificazioni. Quelli che alla Diaz ci tornerebbero mille volte, quelli che quel bastardo di Giuliani se l’è meritata e anche quegli stronzi dei manifestanti, quelli che fanno parlare la pancia, quasi mai il cervello o quelli che sono semplicemente delle teste di cazzo. E che impongono il loro pensiero da testa di cazzo confondendo l’idea democratica dello scambio di opinioni con lo scarico del cesso. Perdonatemi se sono poco forbita stamattina. Ma credo avesse ragione mio padre. Le parole non servono più a niente.

papaà

miss, mia cara miss…

1960

Avevo giurato a me stessa che non mi sarei lasciata trascinare dal gorgo della rabbia e dell’indignazione, che avrei seguito i dettami zen – rastrellando la sabbia del mio giardino immaginario e spostando pietruzze tonde e lucide – senza per questo lasciare che la gastrite nervosa prendesse il sopravvento, esondando acidità incontrollabile. Tuttavia stamattina, complici un’emicrania come ne ho registrate poche nelle annate 2013-2015, il caffè venuto una ciofeca, il vento e la pioggerellina fastidiosa, la luce bianchiccia e lattiginosa che dà il colpo di grazia alle mie pupille fotofobiche, ho iniziato a leggere una serie di articoli che avevo lasciato in sospeso, per le esigenze zen di cui sopra. Purtroppo per me, non mi sono limitata a leggere gli articoli, ma come spesso accade a chi è autolesionista e profondamente incline all’autodistruzione, ho letto anche i commenti. Fortunatamente non avevo con me oggetti contundenti, lame o punteruoli, ma solo la tastiera e lo schermo del mio pc. Tiriamo le somme prima di tirar le cuoia.
Pare che si sia svolta una cerimonia di incoronazione di Miss Università (sic), qualche tempo fa, in un locale non adibito certo a cerimonie cavalleresche e cortesi ma a più prosaiche slot machine, videopoker e intrattenimento per ludopatici (specchio dei tempi, ahinoi); pare che a gareggiare fosse un certo numero di pulzelle di beltà munite oltre che di scienza infusa. pare inoltre che la giuria fosse composta di esperti del settore: dal Rettore a una équipe di chirurghi plastici, da visagisti e operatori di bellezza, a donne soprammobili – che ben conoscono il mestiere della suppellettile silenziosa e ridente – fino a comuni portatori di sguardi spermatici in crisi di mezza età.
A questo punto ho iniziato a masticare un doppio Maalox. Procediamo.
Pare che tale evento abbia suscitato non pochi malumori tra gli studenti e i docenti, facendo borbottare la porzione di opinione pubblica che i commentatori da tastiera definiscono scientificamente”racchie femministe cesse e pelose” quando non “frustrate semprevergini con le ragnatele tra le gambe”. Le radici del malumore sarebbero da individuare, secondo tale schiatta di neoantropologi culturali e sociologi dell’ultimo minuto, nella naturale invidia che da sempre la donna meno piacente ha nei confronti della più bella, come ci insegna la parabola di Genoveffa e della splendida Cenerentola: una sindrome che fa della bellezza l’unica qualità appetibile, poiché sinonimo di potere, prestigio e realizzazione suprema. Parlare ancora una volta di mercificazione del corpo femminile, peraltro in un contesto che almeno in apparenza era estraneo a tali dinamiche (discuteremo in altra occasione di codice (em)etico e di trasmissione di cattedre e assegni di ricerca per via ereditaria o venerea) per giunta con la giustificazione “pubblicitaria” e la necessità di “svecchiare” l’idea vetusta, polverosa e puzzolente che si ha ormai dell’Accademia, fa sbuffare con fastidio chiunque: godiamoci la vita e la bellezza, un po’ di leggerezza, che sarà mai premiare la ragazza più avvenente?, tutta invidia, se aveste avuto l’occasione avreste partecipato pure voi, tutte a lamentarsi e tutte dal chirurgo plastico, che c’è di male nell’esibire un bel culo? e via dicendo.
Sia chiaro, non intendo aprire la mente di cotanti microcefali lobotomizzati da anni e anni di tette&culi ovunque, mi vorrei rivolgere alle donne, alle tante donne nemiche di loro stesse che cedono a questi ricatti, convinte che la loro intelligenza, la loro competenza, la loro unicità dipenda esclusivamente dall’apertura di cosce, dall’esibizione del proprio corpo, dall’atteggiamento di finta superiorità nei riguardi del maschio dominante. Credere di essere libere di concedere porzioni di sé tanto intime e personali, fraintendendo questa concessione con l’idea becera di ottenere attraverso questo scambio un potere sempre maggiore è follia deleteria, autosabotaggio, profonda svalutazione di sé. è schiavitù l’accettazione di un alfabeto maschile, di un immaginario maschile, di un codice comportamentale maschile; emulare il peggio del peggiore maschilismo non corrisponde al trionfo delle pari opportunità: è far sprofondare anni e anni di lotte vere per i diritti in un’unica cloaca senza fondo. E non saranno certo i lustrini e le paillettes a distrarre l’attenzione dal baratro, non sarà la scusa “ma miss università è selezionata tra le ragazze con media più alta”, non sarà la contrapposizione tra le racchie invidiose e pelose che predicano pudicizia e contrizione e le bellissime “specchio specchio delle mie brame”; si tratta di capire che la libertà di vivere il proprio corpo senza infingimenti è sacrosanta, utilizzare (o peggio far utilizzare) il proprio corpo per ottenere qualcosa non è sintomo di notevole furbizia e intraprendenza, ma di sottomissione e dipendenza da meccanismi che dovremmo ripudiare, combattere con tutte noi stesse. La bellezza non è un marchio d’infamia, sia chiaro, ma non può e non deve essere elemento determinante e discriminante. Come non dovrebbero esserlo la religione, il colore della pelle, la forma più o meno tonda del corpo, i tratti somatici, le bizzarrie caratteriali, il modo di vestire: dovremmo riprenderci la nostra unicità, fatta di imperfezioni e di particolarità, di personalità ben distinta, di fragilità. Non siamo bambole di plastica, fatte in serie, modellate al pensiero unico e mononeuronico. Siamo diverse da come ci dipingono e da come mediamente lasciamo che ci dipingano. Sarebbe ora di ribadirlo con forza e convinzione, in tutti i modi possibili. Ma il mondo della Tv, dei media, della comunicazione pubblicitaria rema da sempre contro. Trascurando le suppellettili da quiz televisivo, più o meno svestite, le danzatrici sgraziate che vengono messe alla berlina ( il pubblico si sganascia dalle risate) perché stonate o incapaci di leggere correttamente tre righe, vorrei soffermarmi su alcuni format televisivi totalmente aberranti che sono apparsi recentemente su canali Sky. Niente di nuovo sotto il sole: The Bachelor, ovvero Il principe azzurro. Con la sola piccola differenza che non è certo l’uomo a doversi scapicollare per conquistare la donna amata, ma un serraglio di 27 donne “selezionate dalla produzione secondo i gusti del concorrente” a darsi battaglia con tutte le armi possibili pur di non essere “eliminate” e convolare a giuste nozze col ricco e fascinoso giudice supremo. L’epidemia del tronista ha invaso il pianeta. Se possibile, peggio di questo è una serie che sta per iniziare su Fox life (canale dedicato alle donne, sia ben chiaro: con serie strappalacrime, programmi che possano soddisfare un target orribilmente standardizzato di donne considerate mediamente rincoglionite, credulone, tutte casa e famiglia, con cedimenti a piccole parentesi di fantasie adultere previo ritorno immediato nei ranghi), intitolata Lucky Ladies: ne ho potuto gustare solo il breve trailer, chiedendomi se fosse un’allucinazione dovuta alla visione continuativa di Grey’s Anatomy o alla terribile notizia dell’imminente morte del fichissimo Derek, ovvero scalpo perfetto. Ebbene trattasi di un “docufilm” sulla upper class partenopea (cit.): nel corso delle puntate seguiremo la vita di un gruppo di amiche straricche, “fortunate” pardon, tra festini e shopping, trionfi lavorativi e caviale, champagne e lustrini. A vederle paiono lievemente mummificate, ipertruccate, estremamente volgari. Ma le informazioni sul sito ci dicono che sono donne in carriera, madri e mogli perfette, baciate dalla fortuna e sostenute da solide amicizie. Peccato che nei pochi istanti della presentazione vengano riprese tra bagordi e macchine di lusso, come prostitute di altissima classe (oggi diremmo escort grazie alla riforma sul lavoro di strada di Berlusconi) con l’aria snob e annoiata, sei chili di gioielli addosso, l’occhio vitreo, le risate sguaiate e finte e le perle di saggezza del calibro di “toglietemi tutto ma non il superfluo”. Il ritratto del successo, secondo i produttori. A mio avviso, uno scorcio fin troppo realistico della porcilaia sociale in cui sguazziamo senza tregua e soprattutto senza possibilità di uscirne se non con una profonda e radicale rivoluzione. Che parta da noi stessi, dal nostro spirito critico, dalla nostra personale scala di valori. Non si eliminerà la grettezza, la meschinità o la volgarità di certe esternazioni, è ovvio. Ma si ridurrà quanto meno il consumo di antiacidi, gastroprotettori e tranquillanti. Chiedo venia per questa gigafilippica feisbucca, ma quando la mattina inizia con una ciofeca di caffè è il minimo che possa capitare. Tento di invertire le sorti della prossima moka. Altrimenti seguirà un post apocalittico sulla discriminazione delle donne che non sanno camminare sui tacchi e per nascondere la loro imperizia si scagliano contro le scalatrici di montagne in tacchi a spillo. Ah, che brutta cosa l’invidia…